Vampyr (1932) di Carl Theodor Dreyer - Recensione | Quinlan.it (2024)

A novant’anni dalla suarealizzazione la Cineteca di Bologna porta in sala la versionerestaurata in digitale di Vampyr, in cui Carl Theodor Dreyer affrontail mito del non-morto e lo fa non rappresentando la lotta tra reale esoprannaturale ma realizzando un film in tutto e per tutto fuoridalle coordinate della logica, dell’ordine costituito. Ne viene fuoriuna marcia funebre onirica e malsana, la soggettiva a occhispalancati di un mondo che non ha nessun rapporto con il divino e nonsa trovare più la luce.

La locanda diCourtempierre

Alcalar della sera, un viaggiatore di nome Allan Gray arriva in unalocanda presso il villaggio di Courtempierre, e lì affitta unacamera per dormire. Il viaggiatore è però risvegliatoall’improvviso da un vecchio, che entra nella stanza e lascia unpacchetto quadrato sul tavolo di Grey, sulla cui carta di imballaggioscrive “Da aprirsi alla mia morte”. [sinossi]
E quando fu sul ponte, gli vennero incontro i fantasmi.
Dal film

Alla base dell’intera filmografia di Carl Theodor Dreyer ci sono due elementi, uno affettivo e uno speculativo, che non possono non essere presi in considerazione. Il primo, quello affettivo, riguarda la perdita della madre mai conosciuta, quella madre che era stata ripudiata e lo aveva dato in affidamento, quella madre che per non incorrere nella stessa colpa (dare alla luce un pargolo che il padre non voleva riconoscere) aveva cercato di “salvarsi” finendo involontariamente per uccidersi. Il secondo elemento, quello speculativo, riguarda ovviamente la ricerca di Dio, la possibilità di tradurre la scrittura divina. Una possibilità priva di concretezza, perché non esiste traduzione di quel verbo, non è realmente credibile pronunciare la parola (ordet) della divinità. Il cinema, compresa l’invincibilità della sfida, deve dunque concentrarsi sull’umano, senza per questo però dimenticare ciò che è preternaturale, quel che supera il corso ordinario della natura. La passione di Giovanna d’Arco, il racconto dell’eretica per eccellenza, diventa per Dreyer uno studio certosino del primo piano, l’elegia della fotogenia. Di fronte alla forza di suo pittorica – e infatti desunta anche dall’iconografia cristiana – di una santa, il regista danese impedisce allo spettatore di godere del privilegio del “contesto”: c’è solo l’umano, l’occhio volto verso l’alto, a dominare la scena. Solo il dettaglio può garantire la purezza dello sguardo, la tensione verso il divino, il superamento dell’umano patire. Nell’assordante silenzio del muto la follia disperata dello sguardo di Renée Falconetti (che uscì devastata psicologicamente dal lavoro sul set, e non recitò mai più davanti a una macchina da presa) è la scena cinematografica, non c’è bisogno d’altro. Il preternaturale è in quegli occhi, solo in quegli occhi. Una centralità dello sguardo c’è anche in Vampyr, il film che Dreyer diresse dopo La passione di Giovanna d’Arco e che, nonostante sia considerato a ragione tra i massimi capolavori della sua stupefacente filmografia, all’epoca della sua realizzazione andò incontro a un’accoglienza pessima, senza riscuotere alcun successo. Lo sguardo catatonico del signor Allan Gray (incomprensibilmente chiamato David nella versione italiana) che dalla sua bara guarda in soggettiva il mondo che ora lo sovrasta, e che punta inutilmente – con i suoi palazzi e le sue guglie – verso il cielo, segnò uno scarto forse troppo forte per gli spettatori. In più non giovò neanche l’arrivo in Europa delle copie tanto di Frankenstein di James Whale quanto e soprattutto di Dracula di Tod Browning, con protagonista Bela Lugosi. Al colmo dell’ironia era stato proprio l’impazzare del testo teatrale di Bram Stoker sui palchi londinesi e newyorchesi a convincere Dreyer a confrontarsi con il cinema dell’orrore, e con la figura del vampiro in modo particolare.

Terza grande vampirizzazione del cinema dopo Nosferatu di Friedrich Wilhelm Murnau e il già citato film di Browning, Vampyr si stacca però con forza dai fili che legavano le altre due opere. Dreyer infatti non guarda in direzione di Stoker, non gli interessa la minaccia che dalle regioni più sperdute dell’Europa orientale approda nell’occidente, Londra o Wisborg che sia. Tra le nebbie e gli orrori della notte vuole tornare a concentrare lo sguardo sull’umano, sulla sua colpa, sulla ricerca della pace dall’incubo/sogno che lo tormenta, e che parla di desiderio, ma anche di morte. Così, disinteressato al testo di Stoker, Dreyer si rifugia nella letteratura dell’irlandese Joseph Sheridan Le Fanu: venticinque anni prima che il conte Dracula affronti il viaggio in nave verso Londra il male era già radicato nell’Ovest, nell’Europa imperiale, perché Carmilla è ambientato in Stiria, nel sud-est dell’Austria. Riprendendo alcune suggestioni di Christabel, poemetto incompiuto di Samuel Taylor Coleridge e del racconto Il vampiro di John Polidori (qui il succhiasangue è un giovane inglese che si fa strada nell’alta società, ed è lui a fare scorribande in Grecia), Le Fanu costruisce una storia d’amore saffico che ragiona sulla melanconia, la perdita, la dissoluzione del sentimento. Il furore romantico di Dreyer trova in questo aspetto un punto di partenza non indifferente: a suo modo è una riflessione sul divino ribaltata, Vampyr, così com’è ribaltato e survoltato lo sguardo di Gray mentre osserva il mondo dalla bara in cui è rinchiuso. Ci sono due passaggi di Carmilla che sembrano sposarsi alla perfezione all’occhio di Dreyer, e alle sue volontà poetiche. Il primo recita, nella traduzione di Roberta Formenti: «Credo che nella vita di tutti ci siano dei momenti di particolare intensità durante i quali le passioni vengono scatenate con forza e violenza, e altri momenti che si ricordano con meno precisione»; il secondo, invece, lo si trova proprio nella conclusione del racconto: «Trascorse molto tempo prima che io riuscissi a liberarmi dell’orrore che questa vicenda aveva portato nella mia esistenza, e tuttavia, anche ora, l’immagine di Carmilla ritorna alla mia memoria con ambigua alternanza; a volte è una gioiosa, languida, bellissima ragazza; altre volte è il terribile demonio che ho visto nella cappella in rovina. E spesso mi sono destata da questi ricordi, immaginando di sentire il passo leggero di Carmilla davanti alla porta del salotto».

Dreyer, contrariamente a quanto sarebbe stato fatto dalla maggior parte dei suoi colleghi, non sviluppa la parte sovrannaturale di Vampyr come fosse antitetica al resto del film. Non esiste, in Dreyer, una linea di mezzeria che divida il reale dall’immaginifico, non c’è dunque un punto che collochi “al sicuro” il protagonista e le altre vittime della vampira e della sua turpe schiera di accoliti. Anche per questo il sottotitolo della versione tedesca recita Der Traum des Allan Gray, vale a dire “Il sogno di Allan Gray”. Basterebbe il testo che introduce il film a chiarire l’approccio di Dreyer: “Questo è il racconto delle strane avventure del giovane Allan Gray, che si immerse nello studio del culto del diavolo e dei vampiri. Preoccupato per le superstizioni dei secoli passati, divenne un sognatore per il quale il confine tra reale e soprannaturale è confuso. I suoi vagabondaggi senza meta lo condussero una sera tardi in una locanda appartata in riva al fiume in un villaggio chiamato Courtempierre”. Quando dunque il film principia, ed entra in scena Julian West (questo lo pseudonimo scelto dal barone Nicolas de Gunzburg per la sua sfortunata carriera cinematografica: Vampyr rimane la sua unica interpretazione) si è già in uno stato allucinatorio, dove non può esistere confine tra vero e sognato. Con le avanguardie storiche in declino, Dreyer rivendica un espressionismo degli spazi e degli angoli che serve a deformare ogni aspetto del vero, a trasformarlo alla luce notturna di una luna malefica e salvatrice a un tempo. Come si stesse entrando in un universo che segue leggi della forma e della materia simili ma diverse da quelle cui si è abituati, ci si trova spaesati esattamente come quel Gray che si è totalmente immerso nella letteratura delle credenze popolari. Le angolazioni dello sguardo si fanno inedite, le ombre acquistano una loro totale indipendenza, gli spazi sono ora immensi ora claustrofobici, la narrazione si muove a pochi passi dall’illogico. Non è solo Gray a sognare, ma la stessa macchina da presa. La nebbia che pervade quasi per intero il film e da cui devono uscire nel finale Gray e Gisèle, una delle due figlie del castellano che ha coinvolto il protagonista in questa assurda disavventura vampiresca (l’altra, Léone, è vittima della malia di Marguerite Chopin, morta anziana ma immortale), permette allo sguardo di trovarsi per la prima volta a tu per tu con la normalità. Per il resto Dreyer ragiona come in altre occasioni sulla morte, e Vampyr è forse la sua opera più putrescente, non solo per la morte-non-morte che spinge l’umano ad agire in direzione del “male”, ma perché se si esclude l’ultima inquadratura non c’è respiro, non esiste luce, si può solo procedere di orrore in orrore, di distorsione in distorsione. Anche il sonoro, sperimentato per la prima volta da Dreyer dopo uno studio attento della nuova tecnologia compiuto in Inghilterra, è utilizzato poco per i dialoghi ma quasi esclusivamente per creare un tappeto sonoro dissonante, perturbante. Anche il sonoro, come il gioco di ombre della fotografia, è uno strumento nelle mani di Dreyer per mostrare un mondo offuscato, malsano, polveroso come i tomi che dai secoli passati ancora continuano a tormentare la mente dei curiosi. Più che un film sul soprannaturale Vampyr risulta dunque a tutti gli effetti un film soprannaturale. Dio è la luce ultima, il tremolio ancora vagamente resistente di una stella, ma l’umanità è sprofondata nel deliquio onirico, nella follia, e l’unico modo per rappresentare questo stato delle cose è essere folli, creare un film che sia meccanica pura dell’orrore. Dreyer dirige un film immerso nel crepuscolo, un crepuscolo dal quale non sembra potersi redimere. Non è solo il crepuscolo di Courtempierre (il paesino esiste veramente, 236 abitanti nella Valle della Loira), ma quello dell’animo e della mente di Allan Gray: chi può dire infatti cosa esista davvero? Si ritorni a quel sottotitolo della versione tedesca: “Il sogno di Allan Gray”. Cos’è il sogno, e perché l’essere umano sogna? Queste domande non vengono mai poste da Dreyer in modo netto, ma pervadono ogni istante del film.

Vampyr fusonorizzato in post-produzione in francese, tedesco e inglese(pratica non rara nei primi anni del sonoro), ma le copie originalisonotutte andate perdute. La versione distribuita dalla Cineteca diBologna, restaurata da Deutsche Kinemathek e dalla stessa Cineteca diBologna in collaborazione con ZDF/ARTE e Det Danske Filminstitutpresso il laboratorio L’Immagine Ritrovata, è dunque – cometutte le altre esistenti – una ricostruzione fedele ma parziale,per quanto le parti mancanti non siano molte. In molte nazioni lesequenze più cruente, tutte concentrate nel finale (loscoperchiamento della tomba della vampira, il soffocamento deldottore nel mulino, schiacciato dai sacchi di farina), furonomutilate. Scioccamente si aveva, e si ha ancora, paura dell’immagine,e non del suo significato profondo: perché, se così fosse, neancheun’inquadratura di Vampyr sarebbe stata fatta sopravvivere.

Info
La distribuzione di Vampyr da parte della Cineteca di Bologna.

  • Genere: horror
  • Titolo originale: Vampyr - Der Traum des Allan Gray
  • Paese/Anno: Francia, Germania | 1932
  • Regia: Carl Theodor Dreyer
  • Sceneggiatura: Carl Theodor Dreyer, Christen Jul
  • Fotografia: Louis Née, Rudolph Maté
  • Montaggio: Tonka Taldy
  • Interpreti: Albert Bras, Henriette Gérard, Jan Hieronimko, Jane Mora, Julian West, Maurice Schutz, N. Babanini, Rena Mandel, Sybille Schmitz
  • Colonna sonora: Wolfgang Zeller
  • Produzione: Carl Theodor Dreyer Film Production, Tobis-Melofilm GmbH
  • Distribuzione: Cineteca di Bologna
  • Durata: 73'
  • Data di uscita: 10/01/2022

Raffaele Meale

09/01/2022

Vampyr (1932) di Carl Theodor Dreyer - Recensione | Quinlan.it (2024)
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Author: Margart Wisoky

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